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Zero al quoto

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A venirci in aiuto nella spiegazione del titolo dell'ultimo lavoro di Fabrizio Bregoli, autore tra i più interessanti e penetranti delle ultime stagioni, è direttamente nell'introduzione Vincenzo Guarracino: "Espressione con cui in gergo matematico s'intende una operazione che ha come resto zero e che trasferita dall'ambito suo proprio allude ad una ricerca di senso che approda allo zero, ossia al niente". Zero al quoto allora, nella narrazione di una parabola tra il dover restare- e dire- e il suo scetticismo ci conferma, anche per i dialoghi intessuti con parte della nostra tradizione poetica, che il novecento non è finito. Che il secolo breve è ancora lungo, sono ancora lunghe le sue distonie, le sue macerie che ancora bruciano, le sue grazie anche. Si badi però Bregoli non è epigono, ma autore si diceva originalissimo, per spirito e caparbietà, per rigore e analisi di un reale riportato in tutta la sua compressa, dissonante, complessità. Rigore che nella scansione delle sue sei sezioni (in una settantina di testi) accompagnato da una certa dose di amara ironia e persistenza nel cercare di dividere e recuperare, cavillare un tempo che non ama strumenti critici, richiama spesso volontariamente alla mente certe lezioni di Montale, di Caproni, ad una linea soprattutto lombarda (lui della bassa bresciana) nei nomi di Sereni (che infatti risuonerà più forte nella parte finale), Fortini, Giudici e il caro, carissimo Nelo Risi. Eppure, e di questo da subito Fabrizio ci fa consapevoli nel suo viaggiare tra metapoetica e fratture del mondo, la conoscenza non salva (per dirla ora con la Bachmann), la poesia stessa non dice se non un imparare a morire oltre la consuetudine dell'ora e del non detto, "nella disequazione di parole e senso". "Un'ora d'aria" breve, secca ma per questo teneramente, tragicamente umana nel dare terra a un passo da troppa gravità tentato. Un racconto dal margine così come di rosa che può crescere e dare lode solo dall'asfalto (come in uno dei testi finali) e a cui Bregoli non abdica seppure nella spina di una intraducibilità del reale entro una poesia (sulla cui possibilità tanto finirà coll'interrogarsi nella parte conclusiva) della terza persona, di uomini e luoghi colti tra finitudine e scarto, tra vacuità del vuoto e tentazioni di prossimità, entro una natura e case e spazi che gradualmente più non ci acconsentono, piuttosto si preservano sottraendoci, e sottraendosi. Così il suo è un discorso di piccole luci, di una didattica della vita espressa nella cura quotidiana del minimo, nello strappo di una disciplina capace di "raccogliere/ per sprazzi l'imprendibile, ed includere/ quel senso che svapòra, che recrimina". Una disciplina, ed un' etica della presenza, che nell'esitare, nell'attendere e palpitare dell'ingranaggio vale l'accoglienza di quel nulla che dà principio alla vita, nella cura e nella custodia scontornati dal riflesso dell'altro ("La vita è il nulla che le dà principio/l'assurdo che si intrude nel possibile"). E che due testi, tra gli altri sanno raccontare bene, "Ostello degli inguaribili" in cui una fine improvvisa non interrompe del protagonista la sapienza, "il catechismo/paziente della terra" (giacché nei fatti è la risposta) e "Pietà Rondanini" (nella sezione dedicata alle risonanze ad ut pictura poesis a dire l'iconoclastia di questi giorni) in cui la lotta dello spirito che nella carne cerca il suo profilo è colta a Milano da figure protese "a un bivacco di cartoni". Un'etica, ancora, che si lega gioco forza alla memoria e che ha qui luogo centrale nelle sezioni, in "Memorie (da un futuro)"- appunto- e "Diversa densità degli infiniti" in cui se nella prima la meditazione sulla storia ruota attorno al discrimine tra costruzione e sua menzogna (esemplare in tal senso il testo dedicato alla "Frau Goebbels"), nella seconda l'accento è sui riflessi ordinari dei nostri movimenti che della storia fanno il discorso nella reciprocità delle incidenze ed in cui non si può che registrarne, ora, la mancanza di direzione, le morti scomposte in un tempo in cui ci si può forse salvare solo remando a margine, montalianamente rimanendo a terra (agli occhi andando a perdere: giacché "tutto vale/tanto più se è vile"). C'è un verso allora a dire la sintesi di tanta passione, di tanto cucire e ricucire, sminuzzare, tentare, perdersi di Bregoli anche, a volte, nell'eccesso della parola e cioè questo chiedersi- e chiederci- ora sotteso ora quasi rabbioso se è "amore tutto questo/o solo un suo resistere". Nella consegna di questo interrogativo o nella sua impronta di senso già prossimo, è la sostanza di un percorso in cui ci riconosciamo e che caldamente spingiamo alla lettura. Ce ne fossero.

 

 

 Luca Gilioli - 01/07/2019 02:35:00 [ leggi altri commenti di Luca Gilioli » ]

Stupenda e puntuale recensione, che rende pienamente onore a un volume di pregevolissima fattura. "Ce ne fossero", ripeto anche io...
Complimenti e un caro saluto all’amico Fabrizio Bregoli!

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